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L’origine della felicità o, se preferite, cosa serve per essere felici, non va ricercata nelle cose concrete. Questo punto risulta chiaro semplicemente osservando come pochi istanti dopo essere entrati in possesso di un oggetto desiderato, la sensazione positiva che si è prodotta tende a esaurirsi molto in fretta lasciando spazio a un vuoto che richiede un nuovo periodo di insoddisfazione, di desiderio e di ricerca di qualcosa di stimolante che possa avvicinare alla felicità. Tra le cose intangibili, la società digitale ha creato nuovi desideri che possono illudere di dare la felicità. Popolarità, soldi, immediatezza, apparente assenza di limiti, stimoli infiniti e sempre più eccitanti. Il mondo digitale, con la sua velocità ha prodotto una scoria tossica chiamata performance, produttrice di ansia da prestazione e di infelicità.

Nel loro libro La società della performance, Maura Gancitano e Andrea Colamedi descrivono bene come la performance sia diventata l’ossessione del nostro tempo cui sembra difficile sottrarsi. Cito alcuni passi dal loro saggio.

La generazione dei nativi digitali non conosce altro, non ha fatto esperienza di un’adolescenza fatta di noia e silenzio, libera dalle timeline. E forse è questa una delle ragioni del disagio di cui si parla così spesso online. Il disagio di non avere uno spazio sacro, libero dall’ansia da prestazione.

Tutto deve accadere davanti al mondo in temo reale. Il mondo privato non ha più esistenza perché tutto viene messo in mostra e tutto viene sottoposto a giudizio sommario. Io sono quello che mostro al mondo, e nulla mi rimane di segreto e privato. Continuano gli autori.

Come scrive Peter Handke: «Io vivo di ciò che gli altri ignorano di me». Ma se io mi identifico con ciò che condivido pubblicamente, anch’io ignorerò di me ciò che mi dà vita e non riuscirò a capire cosa desidero davvero, quale sia la mia vocazione, cosa possa dare senso alle mie giornate. Cosa accade all’essere umano che si identifica completamente con la propria performance? Che non sta semplicemente fissando uno schermo, ma si convince di essere ciò che di lui appare sullo schermo?

In questo contesto, l’essere umano che ancora dimora nelle caverne pratica lo sport della distruzione degli altri umani, non più lanciando pietre ma critiche e giudizi taglienti e perentori. Non dei onniscenti, ma cavernicoli inconsapevoli che il mondo sta evolvendo. Il diverso, colui che la pensa diversamente, colui che non è come noi stessi vorremmo essere, ovvero perfetto, viene lapidato nelle nuove piazze sociali. La violenza, l’intolleranza e l’annientamento si esprimono online, sui social.

Siamo tutti indotti a far partire la fitta sassaiola dell’ingiuria ogni volta che qualcosa entra in collisione con le nostre credenze, e ciò a causa della condizione di performance perenne a cui tutti siamo costretti. Ci sentiamo forti a chiedere la testa di chi sbaglia, ancor più se quell’errore fomenta odio e ignoranza. E se migliaia di persone si sono accanite contro la capotreno, cinquantamila contro-indignati nelle stesse ore si sono scatenati contro l’autore del post di Facebook da cui è partita l’accusa, arrivando a minacciarlo di morte. Un clima di indignazione e contro-indignazione che ha rappresentato una escalation di violenza verbale e emozioni negative. […] Viviamo in uno stato collettivo di fastidio e rabbia costanti che non vedono l’ora di esplodere, che ogni mattina cercano una vittima da sbranare. Possono trovarla in un caso di cronaca, in una vicenda controversa o nel post di un amico. In ogni caso le pulsioni che coviamo troveranno l’occasione per essere vomitate.

Condividere la nostra vita, correre e affannarci, possedere ed essere desiderabili non sembrano essere in grado di sollevare l’animo umano per un tempo più lungo di un clic. Come fare dunque per essere felici, quali sono dunque le condizioni nelle quali può emergere uno stato di benessere e serenità che talvolta fanno sentire di essere felici?

La frase di Tolstoj rielaborata dal film Into the wild, “la felicità è reale solo se condivisa”. A ben vedere non abbiamo mai condiviso nel corso della storia così tante informazioni come oggi: condividiamo i post sulle nostre bacheche, condividiamo i video del nostro politico di riferimento di fianco ai nostri successi personali. Ma stiamo condividendo soltanto dati, che nulla hanno a che vedere con la felicità. La felicità, al contrario, non è tracciabile, non è riproducibile. Un po’ come l’amore. Prosegue infatti Tolstoj: «Ho vissuto molto, e ora credo di aver trovato cosa occorra per essere felici: una vita tranquilla, appartata, in campagna. Con la possibilità di essere utile con le persone che si lasciano aiutare, e che non sono abituate a ricevere. E un lavoro che si spera possa essere di una qualche utilità; e poi riposo, natura, libri, musica, amore per il prossimo. Questa è la mia idea di felicità. E poi, al di sopra di tutto, tu per compagna, e dei figli forse. Cosa può desiderare di più il cuore di un uomo?».11 Ora, è chiaro che queste righe gettano un’altra luce sulla frasetta “la felicità è reale solo se condivisa”. Non è facendo dei bei post con i momenti felici della propria vita che si diventa felicissimi. Anzi, è l’autostrada per l’insoddisfazione. E Instagram rappresenta bene l’illusione della felicità condivisa. Elon Musk, imprenditore geniale e controverso, ha spiegato così l’eliminazione del suo account Instagram da 8 milioni di follower: «Instagram fa venire così tanta sete, eppure ti dà la Morte per Acqua». Musk citava il quarto movimento de La terra desolata di Eliot, in cui una morte senza resurrezione spetta a chi si è lasciato tentare dalla logica della performance. Non c’è felicità nel gareggiare perennemente a chi ha i colori più vividi del mondo, le forme più sinuose, i sorrisi più smaglianti. I tasselli indicati da Tolstoj sono altri, e tutti molto definiti: il silenzio, la quiete, la solitudine, la tranquillità. Ossia l’opposto della performance a cui siamo tutti abituati. Ma d’altra parte Tolstoj non parla da eremita integrale: sancisce piuttosto la possibilità di rendersi utili agli altri. (La società della performance. Come uscire dalla Caverna – M. Gancitano, A. Colamedi 2018)